Sacre Icone Aurel (Umile servo di Dio)

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Alcuni Folli in Cristo


Alcuni folli in Cristo




ISAAC

 
Il primo pazzo in Cristo russo si chiamava Isaac. La sua storia ci è narrata dal celebre scrittore di cronache, Nestore, monaco come lui alla fine del secolo XI nel Monastero delle Grotte, a Kiev.
 
Ricco mercante, Isaac si era liberato dei suoi beni terreni e si era messo alla rude scuola dell’eremita Antonio, che aveva preso lezioni d’ascetismo al Monte Athos e viveva in una caverna vicino a Kiev. Come residenza Antonio assegnò al suo discepolo una grotta larga quattro cubiti e come cibo gli passava ogni due giorni, attraverso una stretta apertura, una pagnotta e un po’ d’acqua.
 
Isaac era vestito di una pelle di capro, da poco scuoiato, che aveva incollato al suo cilicio e lasciato seccare sulla nuda pelle. Tutte le sere e a notte tarda cantava dei salmi e faceva prostrazioni finché, vinto dalla fatica, si permetteva di sedersi per dormire, poiché non si coricava mai. Questo genere di vita durò sette anni.
 
Una notte, mentre si riposava in questo modo e spentasi ormai la candela, una luce brillante illuminò la grotta e due giovani entrarono, con volti risplendenti come soli. «Isaac» dissero «noi siamo angeli e veniamo ad annunciarti la visita di Cristo. Eccolo che viene».
Senza riflettere un secondo, senza neppure fare il segno della croce, il disgraziato si prosternò davanti all’apparizione. Un clamore infernale salutò il suo gesto. Isaac si vide circondato da una sarabanda di diavoli. «Tu sei nostro!» urlavano. «Tu hai salutato il nostro capo». E per tutta la notte lo fecero danzare con loro.
 
Quando, all’alba, dopo aver pronunziato la preghiera d’uso, Antonio batté alla porta non ebbe nessuna risposta. Isaac era morto? Mandò ad avvertire il superiore che era allora il grande Teodosio. La porta fu forzata e si trovò Isaac steso per terra, inanimato. «E' opera del demonio», disse Teodosio. Isaac non era morto, ma era divenuto sordo e muto, incapace, come un piccolo bambino, di provvedere ai suoi più elementari bisogni.
 
Teodosio lo fece trasportare nella propria cella, lo curò e per due anni lo lavò, lo nutrì, gli insegnò a parlare e a camminare. Poi lo condusse, sebbene recalcitrante, in chiesa, di cui esitava a varcare la soglia. Il terzo anno lo condusse in refettorio, ma Isaac rifiutava di mangiare se prima un monaco non gli metteva un pezzo di pane in mano. Teodosio disse: «Bisogna che impari a mangiare da solo». Smisero di nutrirlo e, a poco a poco, «guardando gli altri», imparò.
 
Guarito, Isaac non volle più vivere sotto terra e scelse di lavorare nella cucina. Veniva considerato un debole di spirito. Imbacuccato in una pelle di capro ricoperta di stracci, le gambe infilate nei cenci, arrivava sempre primo al mattutino e restava immobile, anche se d’inverno i suoi piedi nudi gelavano sul pavimento. Terminata la salmodia, correva in cucina ad accendere il fuoco e a portare l’acqua. I monaci lo prendevano in giro. «Guarda, Isaac» gli disse un giorno il cuciniere «un corvo passeggia nel cortile: prendilo». In segno d’obbedienza, Isaac salutò il cuciniere prostrandosi fino a terra, uscì e portò il corvo. I monaci si guardarono stupiti e il disprezzo verso Isaac si tramutò in rispetto.
 
Allora, per non esser preso per santo, cominciò a fare l’idiota. Talvolta stuzzicava lo stesso superiore, talvolta, con una buona dose d’umorismo, andava in città a cercare fanciulli e con loro grande gioia li faceva recitare in piccole commedie in cui si parodiavano i difetti dei religiosi, i quali apprezzavano ben poco tale genere di spettacolo: Isaac si faceva bastonare sia dal superiore, sia dai monaci, sia dai suoi parenti.
 
Dopo la morte di Antonio, Isaac ridiscese sotto terra, installandosi nella grotta, divenuta libera, del grande asceta. I demoni si precipitarono a tormentarlo. Ma questa volta «non li temeva più delle mosche». Verso la fine della vita il suo dominio su di loro era completo. «Mi avete ingannato una volta», diceva loro, «perché non conoscevo ancora le vostre malizie; ma adesso ho con me nostro Signore Gesù Cristo e la preghiera del mio padre Teodosio». I demoni potevano bene invadere la grotta sotto forma di animali selvaggi e di rettili ripugnanti, armarsi di badili e zappe, minacciando di seppellire vivo il recluso, ma questo non serviva a niente. «Tu ci hai vinto, Isaac» dissero prima di scomparire definitivamente dopo tre anni di lotta.



SERAPIONE


Serapione, chiamato il ‘Sindonita’ perché il suo unico indumento era una ‘sindone’, cioè una camicia di lino, è il primo a indossare la livrea della pazzia in Cristo: la nudità.

Monaco, nella sua gioventù imparò a memoria le Sacre Scritture. Ma preferendo alla sicurezza di una cella monastica la fame, la sete, I’insicurezza delle grandi strade, scelse la vita errante e vagabonda.

Seduto un giorno sul bordo della strada, vide un mendicante che tremava dal freddo e gli diede la sua ‘sindone’. «Chi ti ha svestito così?» chiese un passante. «E' lui» rispose Serapione, indicando il Vangelo che aveva tra le mani.

A Roma intese parlare di una vergine che da vent’anni viveva da reclusa senza ricevere né parlare a nessuno. Riuscì a vederla. «Cosa fai» - chiese «seduta lì tutta sola?». «Io non sono seduta» - rispose «io sono in cammino». «In cammino verso chi?». «In cammino verso Dio». «Sei morta o viva?». «Spero di essere morta al mondo e viva in Dio». «In questo caso» disse Serapione «scendi in strada e vieni a passeggio». Ella protestò. Ma il ‘pazzo’ le fece capire che dicendosi morta al mondo doveva dimostrarlo. Ella si arrese ai suoi argomenti. Arrivati accanto a una chiesa, Serapione disse: «E ora, se vuoi convincermi che sei morta al mondo, spogliati nuda come faccio io e seguimi». Scandalizzata, la vergine rifiutò. «La gente penserà che io sono pazza». «E allora? Se sei morta al mondo, ti riguarda quel che gli altri pensano?». Ella rifiutò. «Vedi, sorella - disse Serapione, - fa’ attenzione a non gloriarti della tua santità e di proclamare che tu sei morta al mondo. Io sono forse più morto di te e lo provo passeggiando nudo senza vergogna».

Di tutti i pazzi in Cristo si dice che sono nudi, senza rifugio, sofferenti per il caldo e il freddo, la sete e la fame. Nudo, il pazzo in Cristo non risveglia la concupiscenza: è l’uomo come Dio l’ha fatto.

Tutta la vita di Serapione trascorse nel soccorrere il prossimo. Si vendette come schiavo a degli attori ambulanti che convertì e a un manicheo che ricondusse alla fede cattolica. Per impedire loro di vendere il corpo, dava denaro alle prostitute.



SIMEONE


Simeone aveva circa sessant’anni quando si fece buffone e pagliaccio per amor di Dio. I primi trent’anni della sua vita li aveva passati presso i suoi genitori «nobili e ricchi». Si era ritirato poi nel deserto, dove, presso il mar Morto, durante un’altra trentina d’anni, si era dedicato, in compagnia del suo amico diacono Giovanni, ai rigori di una esistenza severamente ascetica. Ma, per Simeone, il soggiorno nel deserto era stato soltanto una preparazione a un ministero di carità. «Non ci è utile, fratello, restare qui» e si volge verso il mondo.
 
Simeone comincia a giocare la commedia, fare delle farse, essere strano fino a diventare colui che, come il clown nel circo, «riceve gli schiaffi».
 
Il suo ingresso a Emesa, oggi Homs in Siria, vicino ad Antiochia, fu trionfale. Il beato trovò su un letamio fuori città un cane morto. Si tolse la cintura, attaccò il cane per le zampe e lo trascinò così all’interno della città. Dei ragazzacci lo videro e si misero a gridare: «Un monaco pazzo! Un monaco pazzo!». E cominciarono a gettargli pietre e a colpirlo coi bastoni. L’incidente ricorda quello del profeta Eliseo che, andando a Bethel, incontrò una banda di ragazzi che lo seguirono gridando: «Vieni su, pelato!». Si voltò indietro e li maledisse. Due orsi uscirono dal bosco e ne uccisero una quarantina. Simeone non maledice nessuno. Al contrario. Con la sua condotta sembra incoraggiare quelli che lo colpiscono e lo urtano. Talvolta zoppicava, strisciava per terra e prendeva per i piedi i passanti, o battendo per terra coi piedi affermarva di essere posseduto dal demonio, facendo molte cose spiacevoli e comportandosi come un alienato, affinché nessuno potesse crederlo santo».
 
Frequentava le taverne, passeggiava nudo, senza vergogna, al mercato, mangiando salame il Venerdì Santo.
 
Durante la liturgia eucaristica, in chiesa, bombardava le donne con nocciole ed entrava nei bagni loro riservati, come per inavvertenza. «Come ti sei sentito là dentro?» chiedeva il diacono Giovanni. «Come un albero tra gli alberi. Non avvertivo il mio corpo. Il mio spirito era occupato da Dio».
 
Una visita misteriosa che fece a una prostituta diede luogo ai peggiori sospetti prima che si sapesse, dalla bocca della stessa interessata, che il santo vecchio, scoprendo che era rimasta tre giorni senza cibo, le aveva portato di nascosto, pane, vino e carne.
 
Quanti uomini, con la sua finta pazzia, ha convinto dei loro peccati non confessati: alcuni di impurità, altri di furto, altri ancora di falsa testimonianza. Alcuni li prendeva in disparte, altri pubblicamente, rivolgendosi a loro in parabole, per svegliare la loro coscienza.
 
Simeone era un pazzo in Cristo completo. Ora attore stuzzicante che adescava il suo pubblico, ora veggente, ora profeta. Nel 588 Simeone predisse il terribile sisma che scosse le città di Beyrut, Biblos e Tripoli. Munito di una frusta, passeggiava tra le colonne degli edifici dicendo ad alcune: «Resistete. Dio ve l’ordina», ad altre invece: «Non cadete, pur senza restare dritte». Le prime resistettero al terremoto, le altre, sebbene lese, non crollarono, mentre il resto sprofondò.
 
Il pazzo aveva a Emesa una bicocca ricoperta di giunchi nella quale passava le sue notti in preghiera. Solo davanti a Dio, Simeone non era più un vecchio clown ridicolo, ma un bambino che sulla terra aveva soltanto il diacono Giovanni per confidente.
 
Alcuni giorni prima della sua morte, gli confidò: «Ho visto qualcuno di glorioso che mi diceva: ‘Vieni, pazzo, vieni a ricevere non una sola corona, ma parecchie, per aver salvato molte anime umane’». Dopo di che non lasciò più la sua capanna. Inquieti, i suoi amici mendicanti andarono a vedere se non fosse malato. Lo trovarono morto, steso sotto un tetto di giunchi. Due di loro presero il suo corpo per portarlo «senza canti, né ceri, né incenso» nel luogo dove si seppelliscono i vagabondi. Due giorni dopo, il diacono Giovanni arrivò e pianse amaramente. Andò al cimitero per seppellire il suo amico «in un luogo conveniente», ma aprendo il sarcofago lo trovò vuoto. Gli angeli, pensò, avevano preso i resti di Simeone. Quanto agli abitanti di Emesa, compresero che il "pazzo" non era stato un pazzo, ma un grande santo.
 
Simeone morì il 21 luglio del 590. Aveva circa settant’anni.



ISIDORA


In Egitto, il monastero di Menn fondato dalla sorella del grande Pacomio, conteneva 400 monache e tra esse se ne trovava una copta, Isidora, di cui si racconta la storia.
 
Si riteneva Isidora una sempliciona e perciò le venivano dati i lavori più duri e le incombenze più ributtanti. A piedi nudi, con un vecchio straccio sulla testa, subiva senza lamentarsi gli scherni, le ingiurie e i colpi con cui la gratificavano le sue compagne. Non mangiava mai in refettorio ma si accontentava delle briciole raccolte dopo i pasti e dei fondi di casseruole recuperati in cucina. Cosa strana, più la maltrattavano e più sembrava felice.
 
Dio solo conosceva la purezza del suo cuore e la rivelò all’eremita Pitirim, discepolo di Pacomio, un giorno in cui era tentato da pensieri orgogliosi. «Che fai lì, perduto in sogni di grandezza?» gli disse un angelo che gli era apparso. «Va’ piuttosto a Menn e chiedi di vedere tutte le religiose del monastero. Una di loro, con uno straccio sulla testa, è più virtuosa di te».
 
Onorate per la visita del celebre eremita, le religiose si riunirono, ma nessuna aveva il copricapo descritto dall’angelo. «Siete qui tutte?», chiese Pitirim. «Sì, manca soltanto la pazza, Isidora, rimasta in cucina». Su richiesta del visitatore, si andò a cercarla. Non appena ella apparve, recalcitrante, trascinata da due suore, Pitirim si prosternò davanti a lei. «Benedicimi, Madre» - esclamò.
 
La superiora della comunità volle interporsi: «Che fai? Non hai vergogna? E' una pazza!». «Siete voi le stolte» replicò l’uomo di Dio che al posto dello straccio vedeva una corona brillare sopra la testa di Isidora. «Ella è migliore di voi tutte, migliore di me, e io chiedo al Signore di trovarmi al suo livello nel giorno del Giudizio».
 
All’udire queste parole, le suore circondarono la «pazza» per chiederle perdono. Una piangendo riconosceva di aver preso in giro il suo aspetto contrito; un’altra confessava di aver rovesciato su di lei dei secchi di spazzatura; una terza si ricordava di averle dato dei pugni e di aver riempito il suo naso di senape. Perdonate, pregarono tutte insieme e il padre Pitirim ritornò al suo eremitaggio.
 
Quanto a Isidora, rifiutato per umiltà il posto d’onore che ormai le riservavano, scomparve dal monastero e nessuno seppe mai dove passò il resto dei suoi giorni, né come morì.



NICOLA e TEODORO

(Novgorod - XIV sec.)


Vivevano a Novgorod. Nicola proveniva da una famiglia nobile e abitava sulla riva aristocratica del fiume Volchov, mentre il suo compagno Teodoro si aggirava tra le numerose chiese sulla riva commerciale.

I due uomini, con una specie di gioco che facevano tra di loro, cercavano di riconciliare gli abitanti delle due rive opposte, dilaniati da discordie e odio. Quando capitava loro d’incontrarsi sul ponte che collegava le due rive del fiume, i beati mimavano un incontro di pugilato e finivano per gettarsi in acqua reciprocamente, dopo di che ciascuno rientrava dalla sua parte, camminando sull’acqua. Queste finte battaglie erano destinate a parodiare i veri combattimenti, talvolta mortali, che i cittadini di Novgorod facevano tra loro per pretesti spesso futili, e che talvolta acquistavano proporzioni tali che l’arcivescovo in persona era obbligato ad andare sul ponte per ristabilire l’ordine brandendo la croce.

Teodoro un giorno fu invitato da Nicola sulla riva «nobile». Prendendo a pretesto la collera probabile di Nicola, dapprima rifiutò ma poi accettò. Appena superato il ponte, eccolo inseguito da Nicola che gli corre dietro gridando: «Ritorna dalla tua parte, jurodivy (pazzo in Cristo)!». Teodoro scappa. Nicola lo insegue. La gente guarda e si diverte. Eccoli sulla riva del fiume: Teodoro continua la sua corsa camminando sull’acqua. Nicola coglie una grossa testa di cavolo nelI’orto dove si trova e, armato di questo proiettile, si slancia anche lui, a piedi asciutti, sul fiume. Arrivato a metà, vedendo che non riesce a raggiungere il suo ‘nemico’, gli getta sul dorso la testa di cavolo, meritando così il soprannome di Nicola-Testa-di-Cavolo, che lo seguirà fino alla sua canonizzazione da parte della Chiesa.

L’incidente è attestato da una iscrizione incisa sulla tomba di Teodoro: «Inseguito da san Nicola dalla riva di Santa Sofia alla riva commerciale, attraversò il fiume a piedi asciutti».

Quanto a Nicola, molto popolare per la sua bontà e la sua sollecitudine verso i poveri che visitava a domicilio e indirizzava sulla via della salvezza, come pure per i suoi numerosi miracoli, non fu mai dimenticato dai Novgorodiani. Centocinquant’anni dopo la sua morte, un arcivescovo che venerava la sua memoria fece costruire sopra la sua tomba una chiesa che il popolo immediatamente chiamò: chiesa di Nicola-Testa-di-Cavolo.



SAN BASILIO

(Mosca - XVI sec.)

 
 
A Mosca furono numerosi i Pazzi in Cristo. Uno dei più amati fu san Basilio, soprannominato il "Camminatore Nudo", e di cui si può a tutt'oggi ammirare la Basilica sulla Piazza Rossa.
 
Amico dello Zar Ivan, nacque in un sobborgo di Mosca da genitori «poveri, onesti e pii». Fin dalla prima infanzia, diede segni, di una marcata predilezione per la dirittura, rifiutando di succhiare il seno sinistro della madre e accettando solo il destro.
 
Suo padre lo mise apprendista da un calzolaio dove rimase fino al giorno in cui un cliente venne a ordinare un paio di stivali che voleva particolarmente solidi. Il giovane apprendista sorrise. Uscito il cliente, il calzolaio, sorpreso, chiese il motivo di quel sorriso. «Ho sorriso perché quest’uomo che vuole gli stivali solidi non ne approfitterà affatto. Domani, a quest’ora, sarà morto». E infatti morì.
 
Lasciato il calzolaio, si mise a correre, svestito, per le strade di Mosca. Una icona lo presenta così, tutto nudo, e un Kontakion, cantato in chiesa nel giorno della sua festa, lo loda «per aver respinto le vesti periture ed essersi rivestito della tunica dell’immortalità».
Basilio aveva pietà di questo mondo di ciarlatani, mendicanti e disgraziati di ogni genere tra cui passava intere giornate al mercato e nelle strade.
 
Un giorno, in una taverna il cui padrone aveva l’abitudine di giurare e d’invocare il diavolo, vide entrare un uomo che si reggeva a stento sulle gambe e che chiedeva all’oste, allungando il denaro, di dargli del vino al più presto. L’oste, servendolo, gli lancia invettive e lo manda al diavolo per la sua premura. Ciò udendo I’ubriaco, prima di portare il recipiente alle labbra, fa devotamente il segno di croce. Basilio, vicino alla porta, scoppia in un riso felice. «Perché?» gli chiedono. E Basilio: «Quando l’oste ha nominato il diavolo, questi è entrato nel bicchiere e quando, prima di bere, I’ubriaco ha fatto il segno di croce, il Maligno si è precipitato fuori dalla coppa e dall’osteria. Perciò ho riso, felice di vedere il diavolo vinto dalla Croce di Nostro Signore».
 
Nel 1521 si teme una nuova invasione mongola. Basilio, in lacrime, prega tutta la notte davanti alla porta della basilica dedicata alla Dormizione della Vergine. All’interno, si fa sentire un rumore assordante; fiamme appaiono alle finestre; l’icona della Madonna di Vladimir, veneratissima, si sposta e una voce annuncia che in compagnia dei santi si prepara a lasciare la città peccatrice. La notizia della visione si diffonde. Si aspetta con terrore l’avvicinarsi del nemico. Già i dintorni di Mosca sono in fiamme. Ed ecco che improvvisamente i Tartari fuggono: avrebbero visto sorgere davanti a loro una armata immensa pronta a difendere la città.
 
Basilio sa camminare sull’acqua. Una nave persiana è in difficoltà nel Mar Caspio. Ogni speranza sembra perduta, quando un russo cristiano esclama: «Noi abbiamo a Mosca un uomo di nome Basilio che cammina sull’acqua; i flutti gli sono sottomessi e la sua preghiera è possente davanti a Dio. Invochiamolo». Appena ha pronunciato queste parole, appare un uomo nudo che afferra il timone e conduce la nave in salvo. Trovandosi poi a Mosca per affari, gli stessi mercanti riconobbero il loro salvatore in un uomo nudo che incontrarono per strada: era Basilio.
 
Un giorno Basilio fa andare in collera lo Zar gettando via per tre volte la coppa di vino da lui offertagli. «Non t’inquietare», disse, «un grande incendio è scoppiato a Novgorod e io cerco di spegnerlo». Incuriosito, lo Zar manda emissari a verificare i fatti. Essi scoprono che, effettivamente, un grande incendio minacciava la città quando, secondo ciò che dicevano gli abitanti, si vide, e contemporaneamente in tutti i quartieri, un uomo nudo munito di annaffiatoio a spegnere le fiamme.
 
Ormai sul letto di morte, ecco che gli angeli vengono a cercare il Camminatore nudo. Mentre una gioia sovrumana si diffonde sul suo volto. Basilio lascia questa terra.
Tutta Mosca partecipa al funerale. Sulla sua tomba s'innalzò una chiesa. Tutta di diversi colori e a spirali, questa fantastica chiesa che adorna la Piazza Rossa è sempre stata chiamata, e lo è tutt’ora, chiesa di san Basilio, jurodivy, pazzo in Cristo, morto a Mosca nel 1552, all’età di ottantotto anni.



Dal sito Italia ortodossa.it

 
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