Sacre Icone Aurel (Umile servo di Dio)

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Benedetto XVI


Testo tratto da “Introduzione allo spirito della liturgia” di Papa Benedetto XVI (Joseph Ratzinger)








L'icona di Cristo - di ciò si divenne ora consapevoli e se ne trassero le conseguenze - è icona del Risorto. Non c'è alcun ritratto del risorto. Al primo momento i discepoli non lo riconoscono. Essi devono essere condotti a un nuovo modo di vedere, con il quale i loro occhi si aprono dal di dentro, così che essi lo riconoscono di nuovo e gridano: È E il Signore! Il racconto più ricco in tal senso è quello dei discepoli di Emmaus. Dapprima deve essere cambiato il loro cuore, perché possano poi riconoscere gli eventi esteriori della Scrittura attraverso il suo centro interiore, da cui tutto viene e a cui tutto muove: la croce e la resurrezione di Gesù Cristo. Poi devono trattenere il loro misterioso compagno di viaggio, offrirgli la loro ospitalità, così che quando Egli spezza il pane accade loro, in
maniera opposta, quello che Adamo ed Èva avevano sperimentato mangiando il frutto dell'albero della conoscenza: i loro occhi si aprono. Ora essi non vedono più solo l'esteriore, ma vedono ciò che non appare ai sensi, ma che attraverso i sensi traspare: È il Signore, Lui che vive in un modo nuovo! Nell'icona non contano questi tratti del volto (sebbene, nella sostanza, ci si attenga alla figura dell’Acheiropoietos); ciò che conta, in essa, è questo nuovo modo di vedere. L'icona stessa deve provenire da un'apertura dei sensi interiori, da un diventare vedenti che supera la superficie
dell'empirico e guarda a Cristo, come dice la successiva teologia dell'icona, nella luce del Tabor. A sua volta, essa conduce chi la contempla mediante lo sguardo interiore, che ha preso forma nell'icona, a guardare nel sensibile oltre il sensibile, che pure è penetrato nei sensi. L'icona suppone, come già osservava Evdokimov, un «digiuno del vedere». Gli iconografì - così dice questo autore - devono imparare il digiuno con gli occhi e prepararsi mediante un lungo cammino di ascesi orante, che segua il passaggio dall'arte all'arte sacra. L'icona viene dalla preghiera e conduce alla preghiera: essa libera dalla chiusura dei sensi che percepisce solo l'esteriore, la superficie materiale, e non nota la trasparenza dello spirito, la trasparenza del Logos nella realtà. In fondo qui è in gioco il salto della fede stessa; è presente tutto il problema della conoscenza nell'epoca moderna: se nell'uomo non accade un'apertura interiore, che vede più di ciò che è misurabile e ponderabile, che percepisce
lo splendore del divino nella creazione, allora Dio resta escluso dal nostro campo visivo. L'icona rettamente intesa ci distoglie dalla falsa questione del ritratto afferrabile con i sensi e, proprio in questo modo, ci permette di riconoscere il volto di Cristo e, in Lui, quello del Padre. Così nell'icona è all'opera lo stesso orientamento spirituale che abbiamo già conosciuto nella liturgia: essa vuole attrarci in un cammino interiore, nel cammino che va verso 1'«oriente», verso Cristo che sta per tornare. La sua dinamica è in tutto e per tutto identica alla dinamica della liturgia. La sua
cristologia è trinitaria. È lo Spirito che ci rende capaci di vedere, la sua opera libera sempre un movimento verso Cristo. «Abbeverati dello Spirito, beviamo Cristo», dice sant'Atanasio (citato da Evdokimov). Quel modo di guardare che Cristo ci insegna, non «secondo la carne», ma secondo lo Spirito (2Cor 5, 16), ci dona allo stesso tempo anche lo sguardo verso il Padre.
Solo quando si è compresa questa direzione interiore dell'icona, si può anche comprendere nel modo giusto perché il secondo concilio di Nicea e tutti i sinodi posteriori che hanno trattato delle icone vedono nell'icona una professione di fede nell'Incarnazione e considerano l'iconoclasmo come una negazione dell'incarnazione, come la somma di tutte le eresie. Incarnazione significa anzitutto che Dio, l'invisibile, entra nello spazio del visibile, perché noi, che siamo legati al materiale, possiamo riconoscerlo. Proprio per questo l'incarnazione è sempre in atto nell'azione salvifica storica e nel parlare storico di Dio. Ma questa discesa di Dio esiste per questo, per attrarre noi in un
processo di ascesa: l'incarnazione ha come fine la trasformazione mediante la croce e la nuova corporeità della resurrezione. Dio ci cerca, là dove siamo, ma non perché rimaniamo là, ma perché giungiamo là, dove Lui è, perché ci innalziamo al di sopra di noi stessi. Per questo la riduzione della figura di Cristo a un «Gesù storico» appartenente al passato fraintende il senso della sua figura, misconosce il senso dell'incarnazione. I sensi non devono essere eliminati, ma devono essere allargati alla loro massima possibilità.
Noi vediamo Cristo solo quando, con Tommaso, diciamo: Mio Signore e mio Dio». Ma come finora abbiamo appurato la dimensione trinitaria dell'icona, così dobbiamo adesso cogliere la sua dimensione antica: il Figlio di Dio poté incarnarsi nell'uomo, perché l'uomo era già stato pensato in sua funzione, come immagine di Colui che è, a sua volta, icona di Dio. La luce del primo giorno e la luce dell'ottavo giorno si toccano nell'icona, come ancora una volta dice Evdokimov in maniera molto appropriata. Nella creazione stessa è già presente quella luce che poi nell'ottavo giorno, con la resurrezione del Signore, e nel nuovo mondo giunge al suo pieno fulgore, ci lascia vedere lo
splendore di Dio. L'Incarnazione è rettamente intesa solo se è vista nella più ampia tensione di creazione, storia e mondo nuovo. Proprio allora diventa chiaro che i sensi appartengono alla fede, che il nuovo modo di vedere non li sopprime, ma li porta alla destinazione originaria. L'iconoclasmo si poggia ultimamente su una teologia unilateralmente apofatica, che conosce
solo il totalmente-altro di Dio, che è al di là di tutti i pensieri e di tutte le parole, così che, alla fine, anche la rivelazione è vista come il riflesso umanamente insufficiente di Colui che resta sempre inafferrabile. Allora la fede viene meno. La nostra forma contemporanea di sensibilità, che non riesce più a cogliere la trasparenza dello Spirito nei sensi, porta quasi necessariamente alla fuga nella teologia puramente «negativa» (apofatica): Dio è al di là di ogni pensiero, e per questo tutto ciò che possiamo dire di Lui e tutte le forme delle immagini di Dio sono allo stesso tempo vali-
de e indifferenti. Questa umiltà apparentemente profondissima di fronte a Dio diventa, già di per se stessa, superbia che non lascia più la parola a Dio e che non gli concede di potersi fare realmente presenza nella storia. Da una parte si assolutizza la materia e, allo stesso tempo, la si dichiara impermeabile per Dio, materia pura, privandola così della sua dignità. Ma - come dice Evdokimov - c'è anche un sì apofatico, non solo un no apofatico che nega ogni analogia. Con Gregorio Palamas egli sottolinea che Dio è radicalmente trascendente nella sua essenza, ma nella sua esistenza ha voluto e ha potuto presentarsi come vivente. Dio è il totalmente Altro, ma è abbastanza potente da potersi mostrare. E ha fatto la sua creatura tale da essere capace di «vederlo» e di amarlo.
Con queste riflessioni ci avviciniamo già al nostro presente e tocchiamo quindi anche l'evoluzione della liturgia, dell'arte e della fede nel mondo occidentale.
Questa teologia dell'icona, che è stata sviluppata in Oriente, è vera e, quindi, valida anche per noi.

Ancora una volta: come si andrà avanti? Cerchiamo di riassumere quel che si è detto sinora, di riconoscere i principi fondamentali di un'arte ordinata alla liturgia:



1. La totale assenza di immagini non è conciliabile con la fede nell'Incarnazione di Dio. Nel suo agire storico Dio è entrato nel nostro mondo sensibile perché esso diventasse trasparente a Lui. Le immagini del Bello, in cui si rende visibile il mistero del Dio invisibile sono parte integrante del culto cristiano. Può certamente esserci un su e giù dei tempi, un'ascesa e una discesa, e quindi possono anche esserci tempi di una certa povertà nelle immagini. Ma esse non possono mai mancare del tutto. L'iconoclasmo non è un'opzione cristiana.



2. L'arte sacra trova i suoi contenuti nelle immagini della storia della salvezza, a cominciare dalla creazione e dal primo giorno fino all'ottavo: quello della resurrezione e del ritorno, in cui la linea della storia si compie come un cerchio. Di essa fanno parte soprattutto le immagini della storia biblica, ma anche la storia dei santi come spiegazione della storia di Gesù Cristo, come il farsi fecondo lungo tutto il corso della storia del seme di grano che, caduto in terra, muore.
«Tu non combatti solo contro le icone, tu combatti contro i santi», aveva replicato Giovanni Damasceno all'imperatore iconoclasta Leone III. Nella stessa linea papa Gregorio III in questo periodo aveva introdotto a Roma la festa di Ognissanti.



3. Le immagini della storia di Dio con gli uomini non mostrano solo una sequenza di eventi passati, ma fanno vedere in essi l'unità interiore dell'agire di Dio.
Esse rimandano al sacramento - soprattutto al battesimo e all'Eucaristia, ed in esso sono contenute, costituendo, proprio in questo modo, anche un richiamo al presente. Esse, quindi, sono strettamente e intimamente legate all'azione liturgica. La storia, però, diventa sacramento in Gesù Cristo, che è la fonte dei sacramenti. Per questo l'immagine di Cristo è il centro dell'arte figurativa sacra. Il centro dell'immagine di Cristo è poi il mistero pasquale: Cristo viene rappresentato come Crocifìsso, come Risorto, come Colui che ritorna e che già ora regna nel mistero. Ogni immagine di Cristo deve portare in sé questi tre aspetti fondamentali del mistero di Cristo, deve, cioè, essere
un'immagine pasquale. In questo sono certamente possibili sottolineature diverse: l'immagine può mettere in primo piano la croce, la passione e, con essa, la situazione di sofferenza che segna anche il nostro oggi; oppure, può mettere più in evidenza la resurrezione o il ritorno di Cristo. Solo, non si può mai isolare del tutto un aspetto particolare: in tutte le diverse sottolineature deve sempre essere presente l'intero mistero pasquale. Un'immagine della croce in cui la Pasqua non trasparisse in alcun modo, sarebbe altrettanto falsata quanto un'immagine pasquale che dimenticasse le stigmate, e quindi la presenza del dolore. In quanto immagine centrata sulla Pasqua, l'immagine di Cristo
è sempre icona dell'Eucaristia: essa rinvia, cioè, alla presenza sacramentale del mistero pasquale.



4. L'immagine di Cristo e le immagini dei santi non sono delle fotografie. La loro essenza è quella di condurre al di sopra di ciò che è puramente constatabile sul piano materiale e di insegnare un nuovo modo di vedere, che percepisca l'invisibile dentro il visibile. La sacralità dell'immagine consiste proprio nel fatto che proviene da una visione interiore e proprio per questo conduce, a sua volta, a una visione interiore. Essa deve essere frutto di una contemplazione interiore, di un incontro credente con la nuova realtà del Risorto e, in questo modo, condurre di nuovo allo sguardo interiore,
all'incontro orante con il Signore. L'immagine serve alla liturgia; la preghiera e lo sguardo, in cui si formano le immagini, devono quindi essere preghiera e sguardo condiviso, in comunione con la fede vedente della Chiesa: la dimensione ecclesiale è essenziale all'arte sacra e così pure il legame interiore con la storia della fede, con la Scrittura e la tradizione.



5. La Chiesa d'Occidente non deve affatto smentire il cammino da lei percorso a partire dal secolo XIII.
Deve però fare finalmente sue le conclusioni del settimo concilio ecumenico, il Niceno Secondo, che ha riconosciuto l'importanza fondamentale e il luogo teologico dell'immagine all'interno della Chiesa. Essa non deve per forza sottomettersi a tutte le singole norme che sono state sviluppate nei successivi concili e sinodi tenuti in Oriente e che hanno trovato una certa sistemazione definitiva nel concilio di Mosca del 1551, il concilio dei cento canoni. Dovrebbe però considerare normative anche per sé le linee fondamentali di questa teologia dell'immagine. È pur vero che non devono esserci delle norme rigide: le nuove esperienze religiose e i doni di nuove intuizioni devono poter trovare un loro spazio nella Chiesa. Resta però una differenza tra l'arte sacra (quella che si riferisce alla liturgia, che appartiene all'ambito ecclesiastico) e l'arte religiosa in generale. Nell'arte sacra non c'è spazio per l'arbitrarietà pura. Le forme artistiche che negano la presenza del Logos nella realtà e fissano l'attenzione dell'uomo sull'apparenza sensibile, non sono conciliabili con il senso dell'immagine nella Chiesa. Dalla soggettività isolata non può venire alcuna arte sacra. Essa suppone piuttosto il soggetto interiormente formato dalla Chiesa e aperto verso il noi. Solo così l'arte rende visibile la fede comune e torna a parlare ai cuori credenti. La libertà dell'arte, che deve esserci anche nell'ambito delimitato dell'arte sacra, non coincide con l'arbitrarietà. Essa si sviluppa secondo quei criteri che sono stati indicati nei primi quattro punti di queste riflessioni conclusive e che rappresentano un tentativo di riassumere le costanti della tradizione figurativa della Chiesa. Senza fede non c'è arte adeguata alla liturgia. L'arte sacra si trova sotto l'imperativo della seconda
lettera ai Corinzi: guardando a Cristo, noi «veniamo trasformati nella sua immagine, di gloria in gloria, mediante lo Spirito del Signore» (3, 18).

Che cosa significa tutto questo in pratica? L'arte non può essere prodotta, così come si commissionano e si producono delle apparecchiature tecniche. Essa è sempre un dono. L'ispirazione non la si può decidere, la si deve ricevere - gratuitamente. Il rinnovamento dell'arte nella fede non sarà conseguito ne con il denaro ne con le commissioni. Esso presuppone, prima di ogni altra cosa, il dono di una nuova visione. Per questo tutti noi dovremmo essere preoccupati di giungere nuovamente a una fede capace di vedere. Dove questo avviene, anche l'arte trova la sua giusta espressione.






 
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